Another Year

Questo film mi ha un po’ deluso. Sono andata a vederlo forse pensando a una cosa diversa, a qualcosa di simile a Happy Go Lucky (dello stesso regista, vitale e originale) e forse non era il film giusto per la giornata..
La storia, che ruota intorno a una coppia londinese molto british e di invidiabile affiatamento, racconta le vicende degli amici, un po’ disperati, molto soli, in contrasto con la serenità dei due protagonisti. Ma le storie sono un po’ annacquate, alcune non sviluppate fino alla fine, brilla solo Mary, la collega/amica/disperata/surreale con una recitazione ottima, prova di grande attrice.
Per il resto troppa calma, troppa immobilità...di buono c’è però una cosa: mette serenità e ottimismo vedere una coppia come quella dei protagonisti così felice, arricchita da una storia di tanti anni di rispetto e amore.

Il cigno nero

O lo ami o lo odi: io l’ho amato, molto, questo film. Mi ha fatto provare la sensazione di aver visto qualcosa di nuovo, mi ha immerso in una atmosfera invasiva e permeante, per due ore, facendomi dimenticare di tutto il resto. Sarà anche un film sensazionalista, volutamente un po’ spettacolare, ma che regia! Non tutti i registi sarebbero stati capaci di camminare così tanto sul filo del trash senza cadere: poteva diventare un pasticcio torbido, invece la storia presenta una ricerca, uno studio sulla personalità della protagonista, e una caricatura grottesca del mondo competitivo, solo apparentemente puro, della danza. Aronofsky si conferma un bravo ritrattista di personalità disturbate e distruttive, già ottimo in The Wrestler (film di taglio maschile) qui grande in un film sensuale e femminile.
Il film è forte, a tratti contaminato di horror, e fonde insieme bellezza eterea e sensualità sanguinosa, rigore e fragilità, follia e arte. Con un Vincent Cassel credibilissimo e Natalie Portman con un Oscar meritatissimo, forse la sua interpretazione migliore.

Splice

Non volevo vedere questo filmaccio di Vincenzo Natali, regista di The Cube. E di The Cube conserva l’atmosfera asfissiante, delirante e un po’ perversa. Il filmaccio però mi è piaciuto tutto sommato, godibile anche se con epilogo trash e un po’ tirato. Bella l’atmosfera, venata della follia dei due ricercatori accecati dal desiderio della scoperta a ogni costo, bella l’inquietante creatura semiumana e semianimale, dotata di una femminilità tanto istintiva, animalesca e ingenuamente crudele (ricordiamo che è un animale) quanto delicata e fragile.
Effetti speciali pochi, ma tutti concentrati bene: Dren (il nome della creatura “splice”) è realistica, carnale, sensuale e viva.
Film che non consiglio agli impressionabili perché è crudo, e a tratti horror e venato di una inquietante ambiguità che può anche infastidire. Ambiguità che però è il vero punto forte del film.

Somewhere

Sofia Coppola racconta il suo tema (a quanto pare) preferito: il rapporto tra padre e figlia. Questa volta il padre è un attore di successo, che conduce una vita edonistica e senza veri obiettivi, tutto sommato parecchio infelice. E poi c’è la figlia, presenza vivificante e pura, leggera e capace di provocare una trasformazione nel padre.
Dove è l’originalità di questa storia (peraltro premiata a Venezia)? Da nessuna parte. Storia già vista e sentita, in questo film è raccontata in modo banale, con escamotage anche troppo visibili: la figlia angelica e le donne squallide e volgari che compongono l’harem pseudo amoroso del padre. Contrapposizione troppo facile. E il tentativo della regista di raccontare con lunghi piani sequenza senza tagli la noia esistenziale del protagonista, rende il tutto solo più noioso, perché non ha la grandezza di ispirazione di altri grandi che hanno utilizzato questo metodo.
Due cose sono ben riuscite: alcune scene spontanee (vedi la scena sott’acqua) di padre e figlia, e il cameo di squallore made in Italy con la serata dei telegatti, capitanata da Simona Ventura e Valeria Marini. Cosa poteva rappresentare meglio il trash televisivo? Qui c’è della bravura nella regista.
ps il trailer è bellissimo

Il discorso del re

Il film racconta attraverso una regia curatissima e illuminata il percorso verso la guarigione dalla balbuzie di re “Bertie” (Giorgio VI), duca di York, secondogenito di re Giorgio V e futuro re di Inghilterra, nonché papà della regina Elisabetta.
Cosa mi ha fatto amare più di tutto questo film? Io credo il racconto umano e esistenziale della personale vicenda del re, che trasforma quello che poteva essere un film storico come tanti altri in un film moderno, con un taglio quasi psicoanalitico. Sì, perché il re per guarire dalla balbuzie si affiderà a un estroso e umanissimo logopedista (ce ne fossero tanti di medici così umani), ottimo “psicologo” oltre che esperto di dizione, capace di intercettare con un intuito tanto creativo quanto bizzarro i tesori più nascosti nell’anima del suo rigido e regale paziente, e scatenare il lui una trasformazione profonda, vitale, irreversibile e salvifica.
Il film è moderno nel raccontare attraverso una fotografia emotiva e dialoghi ricchi di diretta intimità la storia personale, famigliare e politica del re, presentandolo come un eroe contemporaneo, portatore di una sua fragilità ma capace, attraverso un lavoro su se stesso duro e coraggioso, di trasformarla in forza morale e intellettuale.

Grandissima prova di attori: primi tra tutti Colin Firth e Geoffrey Rush, capaci di commuovere senza versare lacrime, asciutti e delicati nel raccontare questa storia di guarigione e di profonda amicizia. Molto convincente nel ruolo della moglie-amica anche Helena Bonham Carter.
NB da non perdere la regina Elisabetta in versione baby.